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Vi spiego qual è il vero legame di Apple con la Cina

La ragione principale per cui Apple opera in Cina non sono i bassi costi di manodopera, ma l'alta concentrazione di competenze. L'analisi di Alessandro Aresu tratta dalla newsletter Capitalismo politico.

Nel 2024, Tim Cook è ospite di Dua Lipa per un’intervista sul divano. Il CEO di Apple, grande protagonista delle filiere tecnologiche, conversa con la cantante britannica di origine albanese, la quale svolge anche un’attività culturale, per esempio consigliando libri attraverso le sue personali recensioni a una comunità di milioni di fan.

In quest’intervista Cook, che Donald Trump una volta ha chiamato con un celebre lapsus “Tim Apple”, parla alle nuove generazioni, e si presenta come un simpatico e saggio zio che discute dei suoi allenamenti mattutini, nonché del suo impegno per l’ambiente e per la diversità.

Cook ci tiene a ricordare che Apple opera con il 100% di energia rinnovabile, per diventare carbon neutral per l’intero ciclo di vita dei prodotti entro il 2030, considerando anche la supply chain e l’energia utilizzata dai clienti. Dua Lipa, convinta dalle affermazioni di Cook, è però preoccupata delle immagini di bambini congolesi che lavorano nelle miniere di cobalto. Cook la rassicura, dicendo che Apple ha un tracciamento intenso della supply chain dalla miniera alla fabbrica, per garantire che non venga utilizzato lavoro minorile. Descrive anche il servizio di riciclo dei vecchi iPhone, che vengono riassemblati (se funzionanti) o smontati roboticamente per recuperare i materiali e riutilizzarli.

Alla star di “Levitating” e “Houdini”, Cook parla anche della sua filosofia sulla forza lavoro e dei tratti che cerca nelle persone. Apple assume persone con percorsi diversi, con o senza lauree, e non solo programmatori. Vuole figure che possono portare curiosità in Apple, oltre a uno spirito di uguaglianza, fondato sulla convinzione che tutti debbano essere trattati con dignità e rispetto.

Oltre a questa sorta di paradiso raccontato dal grande manager nel suo incontro con una star del pop mondiale, c’è un’altra intervista di Tim Cook che vale la pena di vedere, perché diviene spesso virale nei social, da ultimo ad aprile 2025, a seguito degli annunci sui dazi di Trump nel “Giorno della Liberazione”. È l’intervista in cui Cook parla di un argomento che non è approfondito con Dua Lipa, e che è l’argomento decisivo per l’identità di Apple e la sua filiera, l’incredibile e possente macchina che Cook, prima da braccio destro di Jobs e poi da CEO, ha costruito. L’argomento ovviamente è la Cina.

Nell’intervista di Forbes del 2017, da cui è tratto il famoso spezzone sull’elogio di Cook alle capacità cinesi, il manager ricorda di aver visitato la Cina fin dai primi anni ’90. Descrive un cambiamento radicale in questo periodo, con la Cina che si è trasformata da un paese con poche città moderne a uno con alcune delle città più moderne del mondo. Sottolinea anche un miglioramento straordinario delle infrastrutture, dagli aeroporti alle strade. Nell’affrontare il business di Apple in Cina, Cook evidenzia diversi aspetti chiave. Un elemento poco noto è la presenza di quasi due milioni di sviluppatori di applicazioni in Cina che creano app per l’App Store di iOS, che descrive tra le più innovative al mondo.

Nel famoso video, Cook afferma che la ragione principale per cui Apple opera in Cina non sono i bassi costi di manodopera perché la Cina ha smesso di avere un vantaggio sui costi molti anni fa.

Il vero vantaggio, secondo Cook, risiede nelle competenze e nella concentrazione di competenze in alcune aree, molto evidente nel settore manifatturiero. Per Cook, la Cina è il luogo dove si trova un’intersezione tra abilità artigianale, robotica sofisticata e mondo dell’informatica, che non è presente altrove. L’elevato livello di precisione e qualità richiesto dai prodotti Apple, realizzati su scala di centinaia di milioni e con l’obiettivo di zero difetti, si basa su quest’abilità avanzata, in un lavoro continuo coi partner manifatturiero. Dai componenti degli AirPod all’abilità di lavorazione, la Cina fornisce un numero di ingegneri e tecnici specializzati in grado di fare tutto su vastissima scala. Cook attribuisce questo vantaggio alla lungimiranza del sistema educativo cinese nel promuovere la formazione professionale.

Anche se l’intervista di Forbes avviene in un ambiente controllato, Cook affronta il tema delle critiche per il sistema politico cinese. In sostanza dice che, quando si opera in un paese, si è soggetti alle sue leggi e regolamenti. Sottolinea gli aspetti positivi dei cambiamenti in Cina, come l’incredibile lavoro svolto per tirare fuori le persone dalla povertà e la leadership ambientale del governo cinese, che si allinea con i valori di Apple. È ottimista sul fatto che, con la partecipazione di Apple, la Cina possa cambiare in meglio in futuro.

Apple e il triangolo impossibile

Nel mio libro del 2022, “Il dominio del XXI secolo”, per descrivere la guerra invisibile tra Pechino e Washington che vede al centro la filiera fondamentale della vita digitale, l’industria dei semiconduttori, mi sono soffermato su un momento decisivo dell’inizio del nostro secolo: la scelta di Apple di affidarsi alla taiwanese TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company) per la produzione dei suoi chip.

Oltre 15 anni fa, il fondatore di Foxconn, Terry Gou, si presentò a cena a Taipei dal fondatore di TSMC, il suo amico Morris Chang, per organizzare un incontro col braccio destro di Tim Cook e capo delle operazioni di Apple, Jeff Williams. I volumi richiesti dall’azienda di Cupertino necessitavano di investimenti giganteschi, su cui Terry Gou lavorò insieme ai manager di Apple per la costruzione di una supply chain colossale. Per il “cervello” dell’iPhone, Apple decise di affidarsi quasi completamente a TSMC, anche per la mancata volontà del campione statunitense, Intel, di seguire i suoi progetti.

TSMC, sotto la guida di Morris Chang, tornato a quasi 80 anni al comando dell’azienda, cambiò la sua identità per affrontare questa scommessa, investendo 9 miliardi di dollari e mobilitando subito seimila persone per una nuova fabbrica a Tainan, una delle principali città taiwanesi. Come ricordato anche dallo stesso Jeff Williams nel 2017, TSMC riuscì pienamente nell’obiettivo, sia nei tempi che nella qualità, e dal 2014 consegnò i chip ad Apple, avviando una partnership fondamentale per la sua leadership di mercato rispetto a Intel.

Così, il successo dell’iPhone ha dato forma a quello che ho chiamato il “triangolo impossibile” tra Stati Uniti, Cina e Taiwan.

Cosa significa e perché è così importante?

Affinché ci siano centinaia di milioni di iPhone, servono le capacità di progettazione e i capitali di Apple negli Stati Uniti, naturalmente, ma serve anche la leadership produttiva di TSMC, come abbiamo visto. Non solo: assume un ruolo sempre più centrale, e all’inizio sottovalutato nelle sue implicazioni, la Repubblica Popolare Cinese, perché l’iPhone viene assemblato dalla taiwanese Foxconn in Cina.

Tutto ciò costituisce una dipendenza molto significativa perché, attraverso Foxconn e oltre Foxconn, la Cina acquista un enorme potere di ecosistema delle filiere elettroniche, che accompagna la crescita di altre aziende di smartphone e di altri settori (come la mobilità elettrica), che segna il cammino cinese nei semiconduttori e che costituisce un vincolo molto significativo per Apple.

Apple in Cina e la crescita della supply chain

Il nuovo libro del giornalista del Financial Times Patrick McGee, “Apple in China”, sviluppa questi aspetti dettaglio, attraverso dati impressionanti che consentono di contestualizzare il video virale di Tim Cook del 2017.

Nella prospettiva di McGee, la storia della produzione di Apple in Cina può essere definita senza troppa enfasi come la storia dell’ascesa cinese come superpotenza manifatturiera globale. McGee ricorda tra l’altro che Apple dice di aver formato 28 milioni di lavoratori in Cina dal 2008, una cifra superiore all’intera forza lavoro della California. L’investimento dell’azienda di Cupertino e dell’incredibile macchina messa su da Cook, Williams con la maestria dell’esecuzione di Foxconn, non riguarda solo l’assemblaggio, ma anche lo sviluppo di competenze avanzate in materiali, processi produttivi complessi, e la gestione di una logistica su scala impressionante. Solo Foxconn riesce a tradurre le intuizioni di design di Steve Jobs e Jony Ive nella realtà dei fatti della produzione, con effetti che saranno sempre più dirompenti sulle capacità cinesi.

McGee descrive il dinamismo brutale dei processi produttivi dell’ecosistema Apple, basati su una disponibilità di forza lavoro mobile, legata ai trasferimenti dalle campagne alle aree urbane, superiore a quella di ogni altro Paese. L’incontro tra le diverse tipologie di ingegneri di Apple e i lavoratori, tecnici e manager cinesi porta alla costruzione di una “superpotenza delle competenze” fondata sulla precisione manifatturiera.

Secondo un’analisi di “Nikkei Asia”, per cui lavorano le più brave reporter al mondo sulla geografia delle supply chain, la Cina ha rappresentato oltre il 95% della produzione globale dell’iPhone dal suo lancio.

McGee parla di questa dipendenza come di un vero e proprio “tallone d’Achille” di Apple, che diviene una vulnerabilità crescente nel corso della guerra tecnologica tra Pechino e Washington. È un tema politico enorme.

(Estratto da Capitalismo politico, la newsletter di Alessandro Aresu)

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